Scendere dall’albero / Missiologia, allo snodo tra locale e universale

Il paracadutista fu sballottato dal vento, che lo trascinò al di sopra di colline, boschi e brughiere. Quando il cielo si placò, andò a finire sulla punta di un albero, comunque felice d’essersi salvato. Passava di lì uno sconosciuto, e il paracadutista gli domandò:
– Scusi, signore, saprebbe dirmi dove mi trovo?
– Be’… sulla cima di un albero!
– Lei è un teologo?
– Sì, certo… Ma come l’ha indovinato?
– Facile: quello che lei mi ha detto è esatto, ma inutile.

È un apologo del teologo indiano Felix Wilfred, che stigmatizza la teologica “concettuale” di matrice europea, indicando nelle teologie “contestuali” un modo di fare teologia utile, pratico, finalizzato alla trasformazione del mondo in termini di giustizia, di pace, di cura del creato. L’idea non è nuova. Uscì allo scoperto nel 1972 in seno al Consiglio ecumenico delle chiese di Ginevra. La rilanciò l’assemblea costitutiva dell’Associazione ecumenica dei teologi del terzo mondo (Eatwot) a Dar es Salaam nel 1976.

La “contestualizzazione” – non necessariamente chiamata con questo nome – era nell’aria da tempo, per lo meno dagli inizi della teologia della liberazione e dalla pressoché contemporanea teologia neroamericana (Black Theology and Black Power fu il primo titolo di James H. Cone, nel 1969) che si rispecchiava, per l’analoga situazione di apartheid, in Sudafrica.

Da allora si è innescata una germinazione di teologie, in gran parte riconoscibili nella grande famiglia “della liberazione”, caratterizzate localmente (thai, vietnamita, palestinese, caribica…) e, eventualmente, incrociantesi con il genere, l’ecologia, il dialogo interreligioso… Anche in Italia si registra qualche tentativo, come quello di Giuseppe Ruggieri in cerca di «un Cristo siciliano» e che, già nel 1981, asseriva – al convegno Teologie in dialogo: Africa-Italia in occasione del centenario della morte di Daniele Comboni (atti pubblicati dall’Emi di Bologna) – che «non esiste “la” teologia, ma solo le teologie».

L’Istituto di teologia contestuale sorto a Johannesburg – dove si elaborerà nel 1985 il Documento Kairós come un giudizio «cristiano, biblico e teologico sulla crisi politica in Sudafrica oggi» – fa entrare il “contesto” a dignità di definitiva categoria teologica. Si consuma in qualche modo il passaggio, citando due imponenti opere entrambe postconciliari, dal Mysterium salutis al Mysterium liberationis.

È un vasto movimento teologico, seguito, presentato e aggiornato da attenti e simpatetici osservatori: Bruno Chenu ne rendeva conto nel 1988 con Teologie cristiane dei terzi mondi e, sempre per la Queriniana di Brescia, Rosino Gibellini lo inseriva all’interno del movimento teologico di tutto il Novecento in due opere come La teologia del XX secolo e Prospettive teologiche per il XXI secolo (Nigrizia, 11/03, 51).

Ora, la stessa editrice ha dato alle stampe un Dizionario delle teologie del Terzo Mondo che si propone, a dispetto di quanto già pubblicato in materia, come «un testo unico». La scelta e la redazione dei lemmi, che tentano di mettere a fuoco il tema, è infatti tutta e solo dei protagonisti stessi, teologi “terzomondiali” (loro è anche la scelta di mantenere il termine).

In coerenza con la trama di fondo della contestualizzazione, tra articoli come “Dio” e “Trinità” si possono trovare “Militarismo” e “Prostituzione”… La lettura – in coerenza con il carattere popolare che solitamente rivestono le teologie contestuali – risulta abbordabile anche per chi non abbia preparazione teologica accademica.

Le ali dell’Africa
Lo sforzo di sintesi lascia naturalmente un po’ sulla loro fame quanti vogliano saperne di più su un determinato filone o paesaggio teologico, tanto più che le fonti iberofone e soprattutto anglofone hanno di gran lunga la meglio su quelle di espressione francese, che per chi si occupi d’Africa sono altrettanto essenziali.

È allora il caso di aprire un testo che offre un buon Panorama de la théologie négro-africaine contemporaine. L’autore, dell’Rd Congo, proclama la sua ammirazione per Engelbert Mveng, che definisce «il principale promotore della teologia nero-africana della liberazione». Mveng, gesuita, ucciso in circostanze non ancora chiarite nel 1995, fu in effetti un uomo a molte dimensioni – artistica inclusa – e, a giusto titolo, è da vedersi come uno dei padri della chiesa africana.

Autore della categoria di “pauperizzazione antropologica” subita dall’Africa, ha in qualche modo riconciliato nella sua opera e nella sua persona le due grandi ali della teologia africana: l’inculturazione e la liberazione.

Benoît Awazi nel suo percorso – che per altro fa anche delle incursioni nella storia, come nel caso dei movimenti messianici e dell’egittologia – cerca di dimostrare come il dissidio, spesso drammatizzato, tra queste due tendenze non abbia in fondo ragion d’essere.

Lo stesso fa il Dizionario quando sostiene che «la liberazione è necessariamente un atto di cultura e la resistenza culturale è uno strumento e un’arma efficace nella critica a tutto il sistema coloniale». Soluzione a effetto, ma che, in verità, nasconde ancora molti problemi.

Solitamente chi, a questo punto, ha il coraggio di mettere il dito sulla piaga sono le donne. Il discorso teologico delle africane «critica fortemente quegli aspetti della cultura africana che disumanizzano le donne», dice chiaro e tondo, nel medesimo Dizionario, la ghaneana Mercy Amba Oduyoye.

Le fa eco dal Kenya, alla voce (postuma) “Cultura”, Musimbi R. Kanyoro. Per lei, «tutte le credenze e le pratiche culturali dovrebbero essere messe alla prova e affermate per il potenziale di vita che hanno, o condannate per i loro fattori alienanti e produttori di morte».

Una sorta di sintesi hegeliana tra inculturazione e liberazione potrebbe essere rappresentata dalla teologia della ricostruzione di Kä Mana. È la proposta di Awazi, il quale sembra però ignorare la posizione divergente di un suo connazionale che pur mostra la stessa inclinazione per il discorso della liberazione.

Sylvain Kalamba Nsapo si schiera infatti, nelle Prospettive teologiche a cura di Gibellini, con Jean-Marc Éla. E questi trova che l’edificio teologico del pastore Kä Mana «soffre di una carenza sul piano dell’analisi sociologica» (Nigrizia, 11/03, 52. Abbiamo l’impressione che sarebbe a volte il caso di sedersi tutti attorno a un tavolo, dopo avere ciascuno ben approfondito il pensiero degli altri…).

Il fardello della missione
Anche queste diatribe, che ripropongono sotto altri cieli le dispute care alla teologia fin dai tempi di Pietro e Paolo, rivelano che a Sud e nelle periferie ci sono molte chiese vogliose e capaci di elaborare visioni dell’unica fede in Cristo, che siano pertinenti alle differenziate condizioni storiche, economiche, politiche, sociali di popoli, classi, generi, culture e subculture.

Se nella scolastica, studiata nei seminari fino al concilio Vaticano II, la filosofia era ancilla theologiae, oggi alla filosofia si è sostituita la sociologia/antropologia (purché non si sottintenda in tale ancillarità la mancanza di una propria autonomia di fini e di metodi). Ed è una lezione che, a prescindere dai singoli risultati eventualmente discutibili o deludenti rispetto alle premesse, viene alla chiesa intera proprio dai paesi e ambienti “di missione”. Ciò significa allora “missione compiuta”?

Giancarlo Collet (malgrado il nome italiano, si muove tutto nel mondo germanico, oltre a una lunga esperienza latinoamericana) dice no. Padre di tre figli e docente di missiologia, difende con unghie e denti la parola stessa “missione”, nonostante il sudicio della storia che le è rimasto appiccicato («croce e spada») e i suoi ingloriosi inizi come disciplina autonoma.

Considerato il padre della teologia missionaria, sorta negli anni Dieci del secolo scorso, Josef Schmidlin non aveva infatti problemi a scrivere: «Lo stato può sì annettere e incorporare esteriormente dei protettorati; la missione deve aiutarlo ad attuare il fine più profondo della politica coloniale, la colonizzazione interiore».

Ma non per masochismo Collet conserva il termine. C’è un primo motivo, storico, che è quello di non togliere tanto in fretta e banalmente le spalle dal “fardello” della chiesa, la qual cosa ci farebbe ritenere «dispensati dal rielaborare criticamente il proprio passato cristiano», con il risultato di venire a ripetere vecchi errori, altrimenti non più riconoscibili. E c’è un’altra ragione, ancora più profonda: non è possibile evacuare dai contenuti minimi della fede cristiana la «destinazione universale del Vangelo, in modo particolare ai poveri» (e il problema della sua accettazione nel mondo).

Sorprendente è constatare come il «coraggio missionario oggi forse non si trova tanto da noi, quanto piuttosto nelle chiese del Terzo mondo», quelle sorte tra i popoli che più sono stati vittime di una missione occidentale, mischiata a violenza e ad espropriazione identitaria. Vuol dire che qui c’è qualcosa di inerente all’essenza stessa del messaggio evangelico.

Ma vuol dire, anche, che la missione deve trovare nuove (o antiche) vie, e risituarsi nel mondo d’oggi. Una volta esclusa la «propaganda» e ridefinito «l’agire missionario» – che «non consiste semplicemente nell’annunciare all’uomo una salvezza trascendente la storia, bensì nel cooperare alla “liberazione integrale” degli uomini, perché la liberazione è una “mediazione simbolica reale” della “vita in abbondanza”» – Collet spinge in due direzioni: la missione come «testimonianza» che, «in un’epoca postcoloniale», «presuppone la maggior età» dell’interlocutore, e la missione non più legata alla nozione geografica.

In base a una «concezione integrale» della missione, infatti, «ogni chiesa è in primo luogo mandata alle persone appartenenti al proprio contesto» (rieccolo!). Viene dunque resa «definitivamente obsoleta una fissazione unilateralmente geografica su una “missione occidentale transculturale oltremare”».

È la posizione di Yves Congar, uno dei grandi ispiratori del Vaticano II, decreto Ad gentes compreso, che definiva le missioni «per il loro oggetto o per il loro fine: non sono territori ma uomini quelli che non conoscono il Cristo o non credono in lui. Non si può dunque opporre come contraddittorie una definizione geografica e una definizione sociologica (preferisco dire: antropologica): non sono sullo stesso piano. L’una è essenziale e l’altra è accidentale».
Quale coscienza parrocchiale
La citazione è contenuta in un altro libro, dedicato all’analisi del grado di universalità della coscienza parrocchiale in Italia. Don Cesare Baldi ha sottoposto la Parrocchia (così il titolo del suo libro) ai raggi X della “analisi sistemica”, quel metodo di simulazione cui vengono confrontate realtà organizzate come le aziende.

Fatta salva la libertà dello Spirito Santo capace di fare del deserto un giardino, le conclusioni dell’autore non sono allegre, sia guardando al presente sia, ancor più, nelle proiezioni sul domani. «Il sistema parrocchia mostra di essere statico e chiuso, ripiegato su sé stesso piuttosto che aperto agli altri: è una realtà in progressivo declino, si sta spegnendo. Non siamo riusciti a riscontrare segni di ripresa pastorale o di sviluppo, se non simulando sproporzionati e irrealistici aumenti di operatori laici e ordinati».

Tutto questo, mentre la Conferenza episcopale italiana tenta di rivitalizzare il binomio parrocchia-missione, che è stato oggetto di studio della sua assemblea del maggio scorso. La nota pastorale che ne è uscita ripropone fin dal titolo, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, la priorità della missione.

Si articola su tre assi: la concentrazione sull’essenziale, cioè il servizio alla fede delle persone; il nesso tra parrocchia e iniziazione cristiana; la logica “integrativa” della “conversione missionaria” della parrocchia. Che la crisi ci sia, non se lo nasconde nessuno. Ne hanno trattato, di recente, anche una serie di contributi nell’ambito del “Progetto culturale” della Cei, riuniti in un volume dal titolo Ripensare la parrocchia.

Nessuno ha la ricetta per uscire dal «circolo vizioso pastorale» in cui le parrocchie, secondo Baldi, si sono cacciate. Anche qui, però, potrebbe forse essere di aiuto una rinnovata attenzione al contesto, andando a decifrare le domande profonde (per esempio, la formazione) che esso lancia, ancorché inespresse, senza lasciarsi sempre schiacciare da emergenze vere o presunte.

Quella contestualizzazione che fa ancora crudelmente difetto anche nelle omelie “paracadutate” e nelle celebrazioni domenicali, le quali avrebbero invece vocazione di essere la rappresentazione culminante, in forma liturgica, della fede e della vita cristiana, e di una «coscienza parrocchiale missionaria».


I libri di cui parliamo
Virginia Fabella – Rasiah S. Sugirtharajah (edd.), Dizionario delle teologie del Terzo Mondo, Queriniana (“Giornale di teologia”, n° 300), Brescia 2004, pp. 459, € 32,00.
Giancarlo Collet, «… Fino agli estremi confini della terra». Questioni fondamentali di teologia della missione, Queriniana (“Biblioteca di teologia contemporanea”, n° 128), Brescia 2004, pp. 322, € 30,00.
Benoît Awazi Mbambui Kungua, Panorama de la théologie négro-africaine contemporaine, L’Harmattan, Paris 2002, pp. 210, € 18,00.
Cesare Baldi, Parrocchia. Verso una responsabilità globale, Emi (“Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia”), Bologna, 2004, pp. 191, € 9,00.
Servizio Nazionale per il Progetto Culturale della Cei, Ripensare la parrocchia, Edb, Bologna 2004, pp. 133, € 7,70.

pubblicato su NIGRIZIA 7-8/2004

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